Gina, una donna come tante

È il 1936. Davanti ad una specchiera di rame una giovane donna spazzola con vigore i suoi capelli neri. Sul viso riflesso dallo specchio si disegnano pensieri che volano lontano, oltre le barriere delle convenzioni e corrono vivi e veloci come purosangue sulle praterie del far west.

Lettera GÈ la scena iniziale di un romanzo con il quale Manuela Bonfanti racconta la storia di Gina e delle donne della sua generazione negli anni della Seconda Guerra mondiale, del dopoguerra, del boom economico e fino ai primi anni 2000.
Un periodo di grandi cambiamenti segnati per Gina da «La lettera G» e da tre handicap (per l’autrice «tre condanne»): è donna, è povera, non ha istruzione.

Per raccontare la storia di Gina, Manuela Bonfanti usa la scrittura con uno stile preciso fondato su un lungo e impegnato lavoro di raccolta e di verifica della documentazione. Dopo alcune pagine di riscaldamento, la capacità dell’autrice di non solo raccontare ma, soprattutto, di stimolare il lettore a vedere, mi ha rapidamente guidato fino ai titoli di coda di quello che mi è sembrato essere (anche) un ricco documentario, soprattutto quando la storia di Gina si intreccia con la Storia, cioè i fatti e gli avvenimenti della società, della politica, della Chiesa.

Questo romanzo è stato scritto ai tempi di Facebook, degli smartphone, degli sms e di WhatsApp. Ma anche oggi i sogni corrono come mustang nelle praterie; più veloci ma sempre irraggiungibili se non a costo di un duro lavoro su se stessi, di scelte coraggiose e a volte dolorose senza le quali, anche oggi, la vita di molte donne (e molti uomini) scorre incolore e insipida mentre attorno altri determinano la Storia.

Il lettore è subito avvisato: non ci saranno spettacolo, applausi o gloria. Le luci e la musica sono per altri palcoscenici: «se vi immaginate una storia straordinaria, richiudete il libro e riponetelo nella libreria. Gettatelo. O rivendetelo su e-bay».

La vita di Gina corre infatti sui binari della normalità di quegli anni: un lavoro fuori casa (cameriera in un’altra città), il matrimonio, la guerra, le figlie (e l’attesa del figlio maschio). I lavori domestici ritmano il cambio della condizione: donna, moglie, madre, suocera, nonna, vedova.

Nel libro ho così ritrovato fotogrammi della vita delle nonne e delle mamme di chi, come me, è da qualche anno ormai negli… Anta. Ed ho rivissuto momenti che hanno segnato anche la mia vita: l’arrivo della televisione, l’anno dei tre Papi, il sequestro di Aldo Moro, l’elezione in Consiglio Federale e le dimissioni di Elisabeth Kopp.

Mamma Gina deve confrontarsi con Arianna, la nuora: «una donna che seguiva la sua strada senza farsi fermare dagli ostacoli» che osava essere «quel puledro selvaggio che anche lei era stata e che aveva rinunciato ad essere in cambio di una buona reputazione». E che, come se non bastasse, sprecava il tempo «in attività inutili, come studiare», senza l’assillo di dare al marito anche il figlio maschio.

Le tensioni con la nuora sono inevitabili (condite anche da qualche piccola angheria) fino a trovare un punto di convergenza nell’incontro, nato per la comune passione per i fiori, con Priscilla. Anche lei ha studiato. Addirittura all’università per diventare architetto. Per lavorare ha persino rinunciato ad avere figli. E si diceva che fosse anche femminista e sovversiva.

Arianna e Priscilla portano nella vita di Gina una ventata d’aria fresca, un vento gagliardo che risveglia il suono degli zoccoli dei cavalli che nei suoi sogni correvano nelle selvagge praterie. Ma Gina non può o non vuole lasciarsi trasportare da quel vento.

Rimasta vedova, nonna Gina deve affrontare la decisione del nipote di rompere il fidanzamento con Giuliana. Un’onta resa ancora più grave dalla mancanza di motivi seri: semplicemente Patrizio non si sentiva più sicuro. Un peso insopportabile che Gina risolve assolvendo il nipote: la colpa è di Giuliana. «È lei che lo ha lasciato, è lei, quella puttana».

In questi tre momenti nella storia di Gina ho ritrovato donne che mi sono state vicine: nonne, mamma, zie.
Insomma: la storia di Gina è la storia di moltissime donne che se, senza il lavoro di Manuela Bonfanti, sarebbe rimasta anonima.

In tutto il libro, Gina non parla. Resta in silenzio anche se conosciamo i suoi pensieri.
Gli unici dialoghi sono con la sua coscienza e poi con Padre Attila dentro il confessionale «Mi perdoni, Padre, perché ho peccato. Ho ucciso».
Una confessione che accompagna le diverse sequenze della storia e apre le domande tipiche di un giallo: chi ha ucciso? Come? Quando? Come ha potuto sfuggire alla giustizia degli uomini?

Preso dal racconto della storia di Gina, dalla curiosità di scoprire il suo delitto, guidato dalla scrittura di Manuela Bonfanti il lettore giunge al 2005.
Davanti alla bara di Gina si svelano il perdono per il suo peccato, il suo inno all’amore e il suo vero nome.

E mentre scorrono i titoli di coda con le immagini di Gina finalmente libera di correre nelle praterie del cielo, la mente corre ad una delle domande che, nelle pagine iniziali, Manuela Bonfanti aveva posto sussurrandola appena: come sarebbe stata la vita di Gina se invece di scegliere il segno de «La lettera G» avesse avuto il coraggio di scegliere l’altra lettera?

Matteo Oleggini
27 maggio 2014

Manuela Bonfanti, La lettera G, Luciana Tufani Editrice

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