«Catopleba», a volte ritornano

Giorni di fine anno. Un tempo di passaggio nel quale mi piace lasciar correre la mia curiosità compulsiva e «cavalcare l’onda» di stimoli e informazioni con la preoccupazione di «sfuggire ai pericoli del pensiero lineare».

In questi giorni ho riscoperto Nuovo e Utile, il sito di Annamaria Testa, ho partecipato ad un webinar con Giovanni Luccarelli (e il suo libro Fai brillare la tua creatività) e ho incontrato per la prima volta Roberto Bonzio e i suoi Italiani di frontiera.
A Roberto devo l’immagine del surfista che cavalca l’onda delle informazioni e del cambiamento che mi ricordato «I barbari. Saggio sulla mutazione» di Alessandro Baricco.

Surfando, ho incontrato anche Il Tascabile che questa settimana propone catopleba, quale parola della settimana

catoblèpa (alla lat. catòblepa) s. m. [dal lat. catoblĕpas -pae, gr. κατωβλέπων o κατώβλεπον o κατῶβλεψ, comp. di κάτω «in basso» e βλέπω «guardare»]. – Presso gli antichi, leggendario quadrupede africano, raffigurato col capo pesante sempre abbassato verso terra.

Che strana coincidenza. Ritrovo una parola e un’immagine che mi riportano agli anni del Popolo e Libertà (gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso), alle discussioni molto ideologizzate tra progressisti e conservatori. Allora, «catopleba» era utilizzato per dileggiare il direttore e la redazione (ma non solo loro) ingiustamente accusati di non saper sollevare lo sguardo e di non accorgersi che (sull’onda della reaganomics) stava tornando il tempo del conservatorismo.

Oggi, questa immagine assume per me un altro significato. Per citare ancora Roberto Bonzio è l’invito a non restare aggrappato a granitiche certezze perché, nel grande mare dei cambiamenti e dell’innovazione, «i salvagenti di granito» non servono e, al più, trascinano verso il fondo.

È il tempo di sognare

«È il tempo di sognare qualcosa di nuovo».

In questi giorni di ricerca di una nuova normalità, attraverso Facebook, un amico  mi ha donato le riflessioni del suo Vescovo che sogna «comunità aperte, umili, cariche di speranza» (leggi qui).

Mi hanno colpito alcune parole che possono essere una bussola nella ricerca della «normalità post-COVID19»: comunità, dono, fiducia reciproca, rispetto della terra.

Lungo il cammino, non basta leggere «i segni dei tempi» ed ascoltare le parole dei maestri (nel senso di “magister”).
È importante concedersi pause, «attimi di silenzio e momenti di stupore di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore». O della forza vitale che spinge verso l’azzurro cielo.

 

Lo scopriremo solo vivendo

Vasi Comunicanti 2019 – Foto Karakorum, Varese

Per Agatha Christie «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Ho letto diverse avventure di Hercule Poirot ma per anni non ho ascoltato le coincidenze, i loro messaggi o suggerimenti. Superati i sessanta, mi ritrovo più sensibile o forse solo più attento alle coincidenze.

Lo scorso autunno, tre coincidenze mi hanno suggerito il progetto di un nuovo spettacolo. Doveva essere ispirato ai Miserabili ma le circostanze hanno imposto alla regista e anima del progetto di lanciarsi in un progetto che attingerà alle esperienze di giovani migranti che vivono in Ticino e a quelle che abbiamo vissuto nella quarantena. Un percorso che promette di essere “un’interferenza” con il mio modo di pensare e di essere.

In questi giorni, altre tre coincidenze.

Negli incontri del lunedì con Luca Spadaro, Giorgio Thoeni e altri amici del Teatro d’emergenza affiorano spesso dubbi, speranze e riflessioni su cosa e come sarà il teatro nel “dopo COVID-19”.

Tra questi anche la proposta/provocazione di Gabriele Vacis, regista e direttore della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, di tenere aperti i teatri tutto il giorno e, il venerdì e sabato, anche la notte per permettere agli spettatori di assistere anche alle prove e fare del teatro un servizio sociale come la metropolitana o l’acqua potabile.

Ieri, in un webinar, ho “incontrato” per la prima volta Eugenio Barba e l’Odin Teatret. La sua personalità, la sua storia e la sua ricerca del «sapore del sapere» mi hanno affascinato. Mi sono sentito interpellato dalla visione del teatro come «politica fatta con altri mezzi», come strumento per cambiare la società rompendone gli schemi, rifiutare la discriminazione, creare nuove relazioni.

Infine, questa mattina, Facebook mi presenta la “nuova ripartenza” del Karakorum Teatro e dello Spazio YAK a Varese.
Ho avuto la fortuna di conoscere Stefano Beghi e Matteo Sanna in occasione della prima edizione del Festival Vasi Comunicanti da loro organizzato con la Fondazione Lombardi per il teatro. Una ripartenza, presentata da Rete55 (ascolta qui) e VareseNews (leggi qui), che ha molte assonanze con le provocazioni di Vacis e che riflette la relazione dell’Odin Teatret con il quartiere e i suoi abitanti, la ricerca di scambi e di un “baratto” di saperi, incontri, emozioni.

Non so quale sia il messaggio di queste tre coincidenze per la mia formazione culturale (e artistica). Ho seguito l’impulso di fissarle qui per non perderle.
Il resto, come dice Lucio Battisti “lo scopriremo solo vivendo”.

Verso Emmaus al tempo del COVID-19

Dopo l’incontro con Tommaso di domenica scorsa, oggi siamo invitati a camminare al fianco di due uomini che sconsolati si dirigono da Gerusalemme verso Emmaus.
Come loro, in questi giorni di quarantena per il COVID-19 siamo tristi e pieni di malinconia. Ci mancano gli incontri con gli amici, gli abbracci, i momenti trascorsi insieme alle persone più care.
#distantimavicini cerchiamo il senso di questa esperienza e abbiamo bisogno di vicinanza e prossimità per capire cosa succede e per immaginare come potrà essere il “dopo coronavirus”.
Mi lascio guidare dalla riflessione Alessandra Colonna Romano della Comunità Kairós (leggi qui il testo completo).

L’esperienza dei discepoli di Emmaus, raccontata dal Vangelo di Luca (Lc, 24,13-35), mi ricorda quanto sia importante, per ciascuno di noi, l’ascolto e la compagnia solidale.
In questi giorni di solitudine sperimento quanto basti una telefonata, la possibilità di un incontro (rigorosamente ad almeno due metri di distanza), un commento su uno dei profili social per farmi capire l’importanza del “dialogo e la disponibilità ad accogliere ciò che brucia nel cuore dell’altro“.

Da questa consapevolezza auguro a tutti che possa iniziare un nuovo cammino verso una vita nuova.
Per chi crede è un cammino verso “quel luogo dove il dono totale di Gesù è avvenuto, in quel luogo dove la comunità nuova dei discepoli ha inizio: Gerusalemme. Da qui si riparte come persone risorte, diventando
annunciatori di quella Parola che è vita e testimoni di un luogo dove incontrarlo: «Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via
e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane»”. (dalla riflessione delle Clarisse di Sant’Agata che vi invito a leggere qui)

La lezione di un filo d’erba


Oggi è la “domenica di Tommaso” (Gv 20, 19-31), una persona nella quale mi riconosco.
Scrive, Enzo Bianchi.
Tommaso “ha bisogno di vedere ma non di toccare le ferite di Cristo: quando infatti il Risorto lo precede e smaschera con misericordia la sua debolezza, Tommaso, vistosi amato persino nella sua incredulità, fa cadere le sue difese e formula una straordinaria confessione di fede: «Mio Signore e mio Dio!». E a lui Gesù riserva la sua ultima beatitudine, di cui anche noi siamo destinatari: «Beati quelli che crederanno senza avere visto». Sì, siamo chiamati a vivere la beatitudine di chi «vede» Gesù con gli occhi della comunità cristiana, riunita nel giorno del Signore e in ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Sante Scritture, Parola di cui il vangelo è il centro, Parola che è Gesù Cristo”. (leggi qui).
Gioisco con Tommaso. Tuttavia, mi rendo conto che per essere tra i “beati che crederanno senza avere visto” mi manca ancora molto.

Tra le riflessioni proposte da AlzogliOcchiversoilCielo per questa domenica ho scelto quella di Ernesto Balducci (1922-1992) uno dei “magister” negli anni della mia formazione alla politica e all’impegno sociale. Un testo (leggi qui) riproposto dalla Fondazione Balducci a commento della Pasqua 2020.
Quasi una profezia dei tempi che stiamo vivendo e nei quali ci ripetiamo spesso che il “dopo COVID-19” dovrà essere diverso dal “prima”.

Scriveva Ernesto Balducci: “Dovrà cambiare l’uo­mo, dovrà – come dice il profeta – il cuore dell’uomo diventare, da cuore di pietra, un cuore di carne. È una speranza che noi alimentiamo soprattutto dall’evento che celebriamo perché esso dice che le cose mutano. Il senso intimo, antropologico della Pasqua è l’afferma­zione che le cose mutano. Non è vero che c’è una ne­cessità che governa tutto, la novità è la legge. Non mi importa che mi dicano: «Guarda che gli uomini da quando sono uomini si sono sempre ammazzati». Io dico che verrà tempo in cui gli uomini non si ammaz­zeranno”.

Abbiamo celebrato la Pasqua.
Eppure un canto quaresimale resta di grande attualità: “Donaci o Signore un cuore nuovo. Poni in noi Signor uno spirito nuovo”.
Ho bisogno di un cuore che mi aiuti a sapere “mentre parlo un filo d’erba mi cresce accanto alle scar­pe e in quel filo d’erba c’è più che in tutto il mio sorri­so freddo come un laser”.
#Buonadomenica #distantimavicini